venerdì 30 dicembre 2011

PASQUALE SCURA, AUTORE DELLA FORMULA DEL PLEBISCITO NAPOLETANO DELL’ITALIA UNA E INDIVISIBILE di Domenico A. Cassiano




PASQUALE SCURA, AUTORE DELLA FORMULA DEL PLEBISCITO NAPOLETANO DELL’ITALIA UNA E INDIVISIBILE
di Domenico A. Cassiano
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Francesco Perri che si autodefinisce, con eccessiva modestia, “non storico”, con la recente pubblicazione Pasquale Scura “L’Italia una e indivisibile” (ed. Lepisma, 2011, pp. 437), ha dato prova sicura di sapere individuare, catalogare e selezionare tutte le fonti che servono ad inquadrare e delineare i tempi, la vita e le opere del grande e adamantino magistrato di Vaccarizzo, che mai si piegò al potere politico e fu sempre al servizio della obiettività del diritto, anche in tempi di estrema precarietà economica e di difficoltà per la sua numerosa famiglia. A Torino, al tempo della forzata emigrazione politica, si adattò a fare il correttore di bozze per sbarcare il lunario, mai scendendo ad atti che potessero mettere in qualche modo in discussione la sua dignità di uomo e moralità di magistrato.
  

Nel testo è riportato (pag. 129) un episodio assai significativo, finora ignorato. Un tale don Alessandro Sole La Senise aveva prestato allo Scura “colla massima buona fede senza scrittura”, in tre differenti epoche, la somma complessiva di 410 ducati senza mai chiedergliene la restituzione, alla quale lo Scura non aveva potuto fare fronte “poiché le politiche persecuzioni sofferte pel corso di dodici anni, la privazione della carica e del soldo per tutto questo lungo volgere di tempo, l’esilio, il domicilio forzoso ed i bisogni della mia numerosa famiglia mi hanno sovraccaricato di obbligazioni e menato la mia modica fortuna”. Dopo l’Unità, quando cessarono le sue tribolazioni, senza che ne fosse richiesto, lo Scura rilasciò al “generoso benefattore e creditore” una dichiarazione di debito per assicurarne gli interessi, “obbligandomi da uomo di onore di soddisfarlo nei modi e termini seguenti. Mi obbligo perciò di pagargli non solo la somma principale, ma eziandio gl’interessi sui rispettivi capitali alla ragione del sette per cento, contando rispettivamente dalle differenti epoche nelle quali mi furono prestate le tre somme, cioè l’interesse sui ducati sesanta decorrerà dal 15 aprile 1857…quello di ducati dugento…a decorrere dal mese di agosto 1860 e l’altro sui centocinquanta ducati conterà dall’ottobre dello scorso anno 1860. Ma poiché le mie presenti angustie non mi permettono di soddisfare tutto a un tratto le somme suddette, come ardentemente bramerei, e come sarebbe pure mio stretto dovere, mi obbligo di pagarle a rate mensili alla ragione di ducati venticinque al mese mediante fedi di credito”.

Onorava, così, fino in fondo i debiti che per necessità era stato costretto a contrarre nel periodo delle persecuzioni e dell’esilio. Questa era la tempra morale degli uomini che fecero l’Italia! Niente di eroico perché l’intransigenza morale era un habitus, acquisito alla scuola dei giuristi sandemetresi del calibro di Alessandro Marini – era stato Salvatore Marini, Presidente della Corte Criminale di Vibo Valentia, ad inserirlo in magistratura – e consolidatosi nel corso curriculare degli studi severi nel Collegio italo-greco di S. Adriano. Fu proprio questa Scuola che giocò il ruolo fondamentale di promozione culturale fra le popolazioni albanofone nella Calabria Citeriore sin dalla prima metà del XVIII secolo, traendole fuori dalla rozzezza e dalla “barbarie” tanto da sfornare, nell’arco di un trentennio, un vigoroso gruppo di intellettuali, ben presto diventati protagonisti nel campo delle lettere e delle professioni liberali. Si trattava di giovani rampolli della borghesia rurale di recentissima formazione;  non si dimentichi che lo Scura era figlio di massaro di campo e dal mondo rurale e artigianale – particolarmente sarti – provenivano gli studenti di S. Adriano: gli Strìgari, i Tocci, i Dramis, i Placco, i Milano, i Conforti, i Baffa, i Marchianò ecc..
Monsignor Francesco Bugliari, vescovo di rito greco che dimorava in S. Adriano e presiedeva anche alla Scuola, si ispirava al riformismo progressista napoletano ed intratteneva rapporti di amicizia con i suoi esponenti. Notoriamente additato come giacobino e poi assassinato da pugnale sanfedista nell’agosto del 1806, promuoveva nell’insegnamento la nuova cultura, non si attardava – come avveniva in altri similari istituzioni dell’epoca – nel casismo e nel gesuitismo; aveva bandito ogni e qualsiasi sterile integralismo passatista e odio teologico, ritenendo che le dottrine e le idee del riformismo napoletano erano integrative e non in contrasto con la teoria e la prassi evangelica. Spediva a Napoli, per frequentare le lezioni del Conforti, del Baffi e per vieppiù raffinarsi con la frequenza dei circoli culturali napoletani, gli studenti più dotati. Lo scopo era naturalmente quello di creare un gruppo di giovani di moderno sentire ed in grado di portare nel Collegio e di fare conoscere e sviluppare la scienza dei Locke e dei Genovesi.

Il borbonismo restaurato che, con l’abbattimento della Repubblica Partenopea, decapitò il Mezzogiorno d’Italia delle più elevate intelligenze, devastò il Collegio che risorse dalle sue ceneri, riprendendo l’attività didattica e sopravvivendo alle insurrezioni brigantesche, sollecitate dalla corte borbonica, anche se ne fu assassinato il vescovo Bugliari, nel 1806. A questi successe, nel vescovato e nella presidenza della Scuola, Domenico Bellusci che, arrestato nelle campagne di Napoli nel 1799, al tracollo della Repubblica, si era salvato dopo ben diciassette mesi di carcerazione. Il Bellusci continuò sulla stessa linea del Bugliari. Durante la Restaurazione, nonostante la stretta osservanza poliziesca, i testi delle “novità” culturali europee – per dirla con uno degli alunni dell’epoca – “invasero” il Collegio, che divenne anche sede di una cellula carbonara e, successivamente, della sètta de I Figliuoli della Giovani Italia, fondata dal calabrese Benedetto Musolino.

La formazione culturale, conseguita in questa Scuola, dovette lasciare una traccia indelebile sullo Scura per quanto è dato desumere da alcuni saggi, pubblicati sul Panteon dei Martiri (Torino, 1852) scritti nell’esilio torinese, dai quali si evidenzia anche il suo indirizzo politico fondamentalmente democratico-repubblicano. Nella biografia del calabrese Giovannandrea Serrao, vescovo di Potenza, ucciso dai sanfedisti nel 1799, dopo essere stata fatta passare nel popolo basso da preti invidiosi e vendicativi la dicerìa che era frammassone, giacobino e, quindi, nemico del papa, di dio e del re, traspaiano la sua predilezione per il movimento riformistico meridionale e la riprovazione della caccia alle streghe, posta in atto dal governo facendo “ad arte spargere voce da frati e preti fanatici che i dotti e i ricchi erano nemici a Dio e al re, sola fedele e religiosa la plebe”, creando una rete di spie ed una ragnatela di sospetti e “si pervertiva il pubblico costume e si preparava quella infinita serie di calamità che da allora in poi piombarono su quella terra infelice, e che tuttora la tengono bersagliata ed oppressa”.

Ma che cosa è il “reggimento repubblicano”? nella parole che lo Scura mette in bocca al Serrao, è la “democrazia novellamente istituita”, la libertà, “la temperanza civile”, la “sommessione alle leggi”, il rispetto alla vita ed alla proprietà, l’uguaglianza che non consisteva, come erroneamente ritenevano alcuni, “nella eguaglianza delle fortune, ma nella parità dei diritti di ciascuno innanzi alle legge, la quale avrebbe protetto indistintamente tutti i cittadini senza privilegi e senza distinzioni di classi e di condizioni”.

Nell’altra biografia dei fratelli Filomarino Della Torre, pure assassinati nel 1799, Scura considera la repubblica come il regime democratico, fondato sulla libertà e nel quale si è “cittadini fra liberi cittadini anziché signori fra servi”, come nei sistemi di monarchia assoluta, caratterizzati dalle discriminazioni e dalle distinzioni di classe. Evidenzia, inoltre, lo Scura che, all’epoca della Partenopea, repubblicani non potevano essere che i “dotti”, cioè, gli intellettuali e tutti coloro che ne avrebbero potuto apprezzare i vantaggi. Al contrario, le classi popolari – “cui più doveva fruttare la libertà” - lasciate nell’ignoranza e nella superstizione, non erano in grado di comprendere i benefici del nuovo ordinamento politico e perciò l’avversarono, ricorrendo “contro i repubblicani a tali atti d’immanità e di fierezza che destano raccapriccio”.

Queste erano anche le convinzioni politiche correnti nella Scuola di S. Adriano, descritta negli atti della polizia borbonica come cattedra di massime sovversive che bruciavano le menti e i cuori della fanatica gioventù albanese e dove – secondo Raffaele De Cesare – i giovani studenti erano “esaltati da sentimenti di libertà, da reminiscenze classiche e da un senso di idolatria per la rivoluzione francese”. Girolamo de’ Rada, che vi fu alunno dopo lo Scura, ricorda nell’autobiografia che, prima della conversione, il suo “animo restava in potere di due fantasmi”: la poesia per la gloria ed il prestigio e la rivoluzione, “dietro cui parevami stare un avvenire di fortune a perdita di vedute”. Ed i giovani letterati, che usciranno da S. Adriano, lo stesso de’ Rada, Domenico Mauro, Biagio Miraglia, Giannone e Baffi, saranno romantici in letteratura e democratici in politica.

Nell’assenza di probante documentazione, è estremamente arduo ipotizzare lo specifico orientamento politico dello Scura, tuttavia, si deve ritenere, per la sua condotta di vita, fatta di intransigenza morale, che certamente non venne mai meno ai principi etico-politici suddetti, manifestando disprezzo per la corruzione, per il servilismo ed il conformismo, qualche volta, ricorrendo alle maniere forti. Come avvenne a Catanzaro, dove “molti avvocati e cittadini imputati vi accorrevano a corromperlo con moneta sonante; ma lo Scura per tutta risposta gli accompagnava anche con in mano uno scudiscio”!
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La sua condotta di vita e di magistrato non poteva che riflettere le sue concezioni morali ed i suoi convincimenti politici che inclinavano certamente verso un ordinamento democratico, fondato solo sul riconoscimento della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini senza ammettere eccezioni. Con simile carattere, impermeabile a corruttrici influenze ed allo stesso potere politico, lo Scura non poteva non alimentare invidie e sospetti specialmente in un piccolo ambiente, come Potenza, dov’era stato inviato, nel 1840, come Procuratore Generale. Arrivato il 1848, con le sue aperture, i suoi entusiasmi ed illusioni per la parte democratica e la rabbia per gli “attaccati” al vecchio regime, senza sua colpa – come dimostrerà il successivo processo – lo Scura verrà fatto passare come entusiasta partigiano dei liberali. Era una diceria perché, in considerazione della delicata pubblica funzione esercitata, lo Scura teneva ben distinti, senza mai manifestarli, i suoi convincimenti politici dall’esercizio della funzione giurisdizionale, ben sapendo che la dignità del magistrato può essere offuscata o perduta anche per qualunque lieve colpa o negligenza.
La insinuazione malevola era partita e man mano si era gonfiata: Scura veniva fatto passare come uno dei sottoscrittori della circolare del Circolo Costituzionale lucano del 18 maggio 1848, cosa non vera come dimostrerà il successivo processo che scagionerà lo Scura. Addirittura la stampa ironizzava sul caso del Procuratore Generale, che invece di essere fedele al re, era solidale con i liberali e ne sottoscriveva i proclami. Sul periodico Mondo vecchio e mondo nuovo, si scriveva del “Procuratore Generale Scura, uomo che non raccomanderemo al Ministro di Grazia e Giustizia perché lo premii…col farlo riposare dai lunghi servizi, essendo egli una perla della magistratura”. Si trattava di un attacco aperto alle capacità professionali del magistrato e di una vera e propria denunzia per delitto politico che, se vera, ben avrebbe comportato la dispensa dal servizio. Intorno allo Scura si veniva, così, creando ed ingigantendo un clima di sospetti e di paure che, di fatto,  ne limitava la libertà di movimento. Ogni suo atto era attentamente seguito e sorvegliato dagli spioni governativi. Si arrivò perfino a negargli un breve congedo per visitare una sua figliuola malata, che studiava a Napoli e dimorava in un educandato; per ben tre volte chiese inutilmente il permesso al ministro di Grazia e Giustizia (pp. 226-228), il quale gli rispose che “aloquando il re avesse dato un congedo a lui ministro per rivedere le sue proprietà, avrebbe permesso che i funzionari della giustizia si fossero allontanati dalla loro residenza”.
In tale contesto, un gravissimo fatto di sangue fu consumato in Basilicata per rappresaglia politica. Il deputato Costabile Carducci con altri due suoi amici tentava, a bordo di un piccolo battello, di raggiungere Napoli per via di mare, non potendo arrivarvi per terra a causa della occupazione di Campotenese da parte delle truppe al comando del generale Lanza. Una improvvisa tempesta, nel mattino del 4 luglio 1848, portò l’imbarcazione ad infrangersi sul lido di Acquafredda. La cosa destò naturalmente la curiosità degli abitanti del posto che vi accorsero numerosi quando si sparse la voce che uno dei naufraghi era il deputato Costabile Carducci, assai famoso nella zona. La notizia giunse anche al prete borbonico Peluso, noto per il fanatico attaccamento al re e che, in precedenza, nella sollevazione antifrancese del 1806, si era reso protagonista di non poche gesta delittuose. Pensò bene di offrire un ulteriore servizio alla monarchia per poi chiederne la ricompensa in denaro. Con alcuni suoi accoliti si recò nella spiaggia e trovò che, proprio in quel momento, il Carducci ed i suoi compagni, approfittando della bonaccia, stavano imbarcandosi. Li assalirono a fucilate. Sorpresi e disorientati, due degli accompagnatori riuscirono a mettersi in salvo; Costabile Carducci, ferito, trovò un precario rifugio dietro uno scoglio, ma venne catturato. Il suo cadavere fu trovato, dopo qualche tempo, dentro una grotta, massacrato e crivellato. Nel corso delle indagini, si venne a conoscenza che era stato condotto in località Fontana della Spina e, nella notte tra il 4 e 5 luglio ’48, ucciso, per ordine del Peluso, da tale Flaminio Canonico.

L’assassinio del Carducci destò una grave impressione. Le indagini si presentarono subito assai difficoltose e aggrovigliate. Nell’immediatezza, furono arrestate diverse persone, che risultarono estranee. Fu posto in essere un interessato depistaggio in modo tale che non si arrivasse agli autori effettivi del delitto. Si fece insistentemente circolare la voce che il deputato Carducci si era recato in Acquafredda per proclamarvi la repubblica e che, nella circostanza, vi avesse commesso violenze e abusi nei confronti di cittadini e che, quindi, il suo assassinio era stato in qualche modo da lui stesso determinato, provocando come reazione una sommossa popolare in difesa della monarchia. Nell’occasione, lo Scura, nella sua qualità di procuratore generale, ordinò al giudice istruttore di indagare se vero fosse il movente politico o se questo fosse un puro e semplice pretesto, inventato per l’occasione, per distogliere l’attenzione dalle vere motivazioni. Era assai intuibile che il nuovo indirizzo delle indagini, impresso dallo Scura, portava in direzione del partito borbonico e dei suoi esponenti, tra i quali vi era il prete Peluso. Per conseguenza, si sarebbe scoperto che si  trattava di un vero e proprio delitto di Stato o, comunque, coperto dallo Stato col fine evidente di proteggere un fedele partigiano del re. In tal caso, lo stesso sovrano ne sarebbe stato coinvolto. Non appena si ebbe contezza a Napoli, nel governo, delle nuove indagini, fatte attivare dallo Scura, immediata fu la reazione. Con decreto del ministro di Giustizia, sottoscritto anche dal re, lo Scura fu, di fatto, destituito; al suo posto fu chiamato Don Francesco Paolo Chieco, sostituto procuratore generale in Avellino e Don Pasquale Scura rimase in attenzione di altro destino. Di fronte all’accertamento della verità, lo Scura non aveva avuto esitazioni.

Che il re si fosse preoccupato e si sentisse minacciato dal nuovo ritmo, impresso alle indagini, è testimoniato dal seguente episodio: nel 1852, nel suo viaggio in Calabria, egli sostò per qualche giorno, a Spezzano Albanese, ricevendo nel Giudicato Regio le persone che gli si rivolgevano. La moglie dello Scura, Concetta Miele, pensò bene di fargli visita perché graziasse il marito, consentendogli il ritorno dall’esilio e la reintegrazione nelle sue funzioni giurisdizionali. Al solo sentire il nome dello Scura, il re andò in escandescenze e, parlando in dialetto napoletano, investì la povera donna piangente e supplicante dicendole: Signò, pel vostro signor marito non aggio che nce fa. Isso s’è permesso a vulè mannà ‘ngalera a chi difenneva a mme! Pè mme capite, ppè mme! Firmava carte sempe isso, vostro marito, e sempe contra a mmè! Si tenite altri comandi a darmi e la piantò in asso.
  
Contro lo Scura si procedette anche penalmente per il grave reato di cospirazione al fine di distruggere il governo, dal quale fu scagionato. Nel testo, sono diligentemente riportati gli atti processuali, il mandato di cattura, notificato alla moglie perché nel frattempo il Magistrato era scappato a Torino, la sentenza di assoluzione, pronunziata dalla Gran Corte Criminale di Basilicata nell’ottobre 1855. Sarebbe stato opportuno che fosse documentata anche l’attività politica del giovane figlio dello Scura, Angelo, che aveva seguito il padre nell’esilio e che, particolarmente, alla vigilia della Spedizione dei Mille, collaborò efficacemente per la riuscita dell’impresa. Lo ricorda Francesco Sprovieri nei suoi Ricordi politici e militari: “Non posso fare a meno di accennare ad una circostanza…Il Generale Garibaldi era minuziosamente informato delle fasi della rivoluzione siciliana del 1860 da Miceli e da me; un emigrato della provincia di Cosenza, chiamato Scura, impiegato telegrafico a Genova, ci comunicava i dispacci che il Colonnello di Vascello della R. Marina D’Aste spediva da Messina al governo di Torino…Tali dispacci passavano per l’ufficio di Genova e comunicati a noi come ho detto, io poi li portavo alla villa di Quarto. Quando giunse il telegramma essersi domata l’insurrezione in Sicilia, lo Scura ne diede copia al Miceli che la comunicò a me ed a Domenico Mauro…Noi credemmo prudenza di non fare sapere a nessun di quel dispaccio, nemmeno al Generale Garibaldi. A bordo, poi, del Lombardo, comandato dal Bixio, a lui lo mostrò il Miceli e Bixio ci ringraziò del nostro silenzio e ne fu più che contento, perché senza di esso forse la Spedizione avrebbe sortito un ritardo. Così, coll’avere tenuto segreto quel telegramma, rendemmo un gran servizio alla causa dell’Unità d’Italia”.   
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Pasquale Scura con decreto di Garibaldi del 27 settembre 1860 fu nominato ministro della Giustizia con Raffaele Conforti all’Interno e Francesco De Sanctis all’Istruzione. Per tale nomina determinante fu la vecchia amicizia col Conforti che ne conosceva l’indiscutibile rettitudine e lo apprezzava per la dottrina e l’equanimità di magistrato. Il testo riporta i provvedimenti, sottoscritti dallo Scura come ministro, dando particolare e giustificato risalto alla formula del plebiscito napoletano ed allo storico successivo verbale dell’8  novembre 1860, sottoscritto nella Reggia di Napoli, dei quali fu estensore. Mentre per la Toscana, l’Emilia e le Marche, la formula del plebiscito fu di “annessione” o di “unione”, quella napoletana, oltre ad essere più larga e comprensiva, sottolinea significativamente il principio democratico (“il Popolo vuole”), come fondamento del potere, anche di quello monarchico, non più derivante dalla “grazia di Dio”, e quello di nazionalità de “l’Italia una e indivisibile”.
Scura, nello stendere la formula, ha interpretato e sintetizzato le opinioni e le tendenze politiche che, in Napoli, vivacemente si scontravano, riuscendo nella difficile impresa di conciliare contrapposte opzioni ideologiche e politiche, ma ponendo, come presupposto del processo di unificazione della Penisola, la volontà popolare, l’indivisibilità, la monarchia costituzionale, come a volere significare che la rivoluzione dei Mille mutando nome, assumeva quello di Plebiscito ossia rivoluzione di tutto un popolo. Il che se non appagava del tutto il Mazzini, che aveva lottato una vita per l’affermazione della democrazia e dell’unità nazionale, tuttavia non accoglieva le istanze di parte moderata che erano per una pura e semplice annessione.
Nel fuoco delle polemiche, delle opinioni e delle tendenze, la formula plebiscitaria salvò il dato storico oggettivo consistente nel fatto che l’ex regno di Napoli era caduto per opera della rivoluzione e dell’iniziativa democratica o – per dirla con Domenico Mauro – dello “spirito del Mezzogiorno”, apertamente osteggiata dal Cavour, che aveva tentato di fermare i volontari e di impedire la conquista della Sicilia e la liberazione di Napoli, per non riconoscere alcun merito alla rivoluzione. Ai primi dell’ottobre 1860, i moderati piemontesi, comprando alcuni capi della plebaglia e del sottoproletariato napoletani, avevano organizzato una dimostrazione contro Giuseppe Mazzini che, da quale mese era a Napoli, al grido di morte a Mazzini! 

La storiografia e la stampa contemporanea attestano, peraltro, l’agitatissimo periodo che va dal 7 settembre, entrata di Garibaldi a Napoli, al 21 ottobre 1860, data del Plebiscito. Il governo piemontese ed i suoi emissari fomentavano artatamente il caos a Napoli allo scopo di dimostrare l’esistenza di una presunta minaccia repubblicana dal Mezzogiorno. Furono spediti a Napoli perché succedessero al governo prodittatoriale, i più acerrimi nemici di Garibaldi, La Farina e Farini, con la disposizione di essere intransigenti contro Mazzini ed i mazziniani e contro gli stessi garibaldini.

Crispi, Mazzini e Cattaneo  avrebbero voluto che, prima del Plebiscito, fosse eletta un’assemblea per discutere e deliberare sulla nuova situazione politica, economica ed istituzionale – discussione che già iniziava nelle pagine de Il Popolo d’Italia, da poco appositamente fondato in Napoli dal Mazzini -. A Cavour non andava giù decisamente la formula del plebiscito; avrebbe voluto l’annessione e ordinò ai funzionari piemontesi di considerare il voto soltanto come annessione. Ma, nonostante tutti i tentativi delle correnti antiplebiscitarie,  il voto  fu una vittoria dei principi mazziniani di democrazia e nazionalità ed il “re costituzionale” derivò il potere dalla sovranità popolare e non dalla grazia divina.

Il governo sabaudo, che si era affrettato a revocare alla madre di Agesilao Milano, attentatore di re Ferdinando, il vitalizio concessole da Garibaldi, per lo Scura, mostrò soltanto indifferenza: non gli perdonò il suo “peccato” di democrazia. Pasquale Scura pagò con la solitudine; non ebbe onori e ricompense. E neppure li chiese; tornò a fare il magistrato in cassazione, dove, nel suo scanno, lo colpì l’ictus durante l’udienza del 12 gennaio 1868 che lo portò alla morte. Lasciò una toga onorata e la testimonianza di intransigenza morale e di patriota unicamente “sollecito di una forte compagine nazionale”, che resta un merito incancellabile ed un punto fermo nella storia nazionale.

IL TESTO DI DOMENICO CASSIANO è stato pubblicato sul periodico “Corriere della Sibaritide” (novembre/dicembre 2011) diretto dal prof. Antonio Benvenuto.

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